Tesoro mi si sono ristretti gli stati

I Classici de Press News Veneto (PNV): ve riproponemo n’articolo del 6 Marzo 2009 inedito in version italiana (version originale)

L’Economist Intelligence Unit (EIU) ha recentemente pubblicato la previsione di crescita per i prossimi 5 anni. Mentre il grosso dell’attenzione si focalizza sulle recenti tendenze recessive, un traguardo importante emerso dai dati rischia di essere trascurato. Nei prossimi anni gli sloveni sono destinati a diventare più ricchi degli italiani.

Il miglior paese del vecchio blocco comunista sta per superare la peggiore economia dell’Europa occidentale. Per la Slovenia questo è il traguardo che chiude ufficialmente la cosiddetta transizione economica. In appena due decadi, una differenza apparentemente insormontabile è stata chiusa.

Per i prossimi anni l’Italia rappresenterà una boa, un simbolo di successo per la Repubblica ceca,  l’Ungheria, la Slovacchia, l’Estonia e via dicendo. Gli ex paesi comunisti sono là in fila preparandosi a celebrare la grande impresa. Ma questa convergenza in reddito pro capite era un effetto inevitabile dell’integrazione economica?

Se guardiamo a tanti altri stati dell’Europa occidentale notiamo che, a parte l’attuale recessione globale, stanno crescendo di buon passo e non si faranno raggiungere dalle economie dell’Est europeo nel prossimo futuro. Il risultato dell’integrazione economica non è proprio una convergenza di benessere, ma qualcos’altro.

Note: Dati di Eurostat e proiezioni di EIU.

Se guardiamo oltre l’Italia, notiamo che altri grossi paesi come la Germania, la Francia, e la Gran Bretagna stanno perdendo colpi non solo rispetto ai piccoli paesi dell’Est europeo, ma anche rispetto alle economie piccole e in crescita dell’Europa occidentale (Irlanda, Grecia, Finlandia, Norvegia, Lussemburgo).

I professori Alberto Alesina (Harvard University) ed Enrico Spolaore (Brown University) hanno dato una spiegazione a questa tendenza in The Size of Nations. Sostengono che l’aumento di globalizzazione e del commercio internazionale diano un vantaggio alle nazioni più piccole.

Con l’eliminazione delle tariffe e di altre barriere al commercio, i confini commerciali vengono cancellati e le imprese dei paesi piccoli hanno accesso ai mercati globali tanto quanto i loro concorrenti dei paesi più grandi. Però i cittadini e le ditte all’interno dei paesi più piccoli ottengono vantaggi da una politica che riesce a essere più vicina alle loro necessità. Questa è la tesi portata avanti da Alesina e Spolaore.

Non sorprende che osservino che il numero dei paesi si è quasi triplicato in circa 60 anni, passando da 74 nel 1945 ai 195 odierni. Un’analisi econometrica presentata nel loro articolo Economic Integration and Political Disintegration conferma che con una crescita del commercio internazionale conviene far parte di una stato più piccolo e politicamente più efficiente.

Trovano causalità in questa correlazione fra crescita del commercio e moltiplicazione di stati. Significa che il commercio internazionale cresce non solo perché ci sono più paesi, ma che è la crescita del commercio a incentivare la nascita di nuovi stati, che di conseguenza sono più piccoli.

Questa conclusione è piuttosto intuitiva. Far parte di un impero poteva pagare durante l’era protezionista di fine diciannovesimo secolo e per metà del ventesimo. Allora i confini politici rappresentavano in pratica anche i limiti commerciali. Pagava far parte di un contenitore più grande.

In un’era di globalizzazione questo non è più il caso. E’ vero che i paesi europei più giovani sono usciti dall’ex blocco comunista. A parte i Balcani, questo è stato un processo pacifico e legale.  Estonia, Lettonia e Lituania hanno votato per l’indipendenza nel 1991. La Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno votato per prosperare separatamente nel 1993. Il Montenegro, dopo aver evitato le guerre degli anni ’90, quieto quieto ha fatto il suo referendum nel 2006 e guadagnato la sua indipendenza e adesso sta crescendo.

Questa tendenza verso confini politici più famigliari sta riversandosi anche in Europa occidentale, forse anche aiutata dal ruolo assunto dalla UE. La Groenlandia ha votato per l’indipendenza dalla Danimarca l’anno scorso. Pochi decenni fa sarebbe stato impensabile che poche migliaia di persone che vivono isolate nell’Artico avessero contemplato di andare per conto proprio. Oggi la UE fornisce una sorta di economia di scala istituzionale che abbassa i costi di essere uno stato sovrano.

L’anno prossimo la Scozia potrebbe aver l’opportunità di votare per l’indipendenza. Nell’ultimo paio di decenni hanno osservato i loro vicini irlandesi passare da più poveri dell’Europa occidentale a una media di reddito più alta che in Svizzera.

Entrambi hanno ricevuto fondi dalla UE ed entrambi hanno caratteristiche simili (parlano inglese e sono collocati alla periferia dell’Europa). Però gli irlandesi avevano l’autonomia politica per mettere in atto la giusta politica nazionale per avvalersi di un vantaggio comparato. Hanno adottato una politica fiscale invitante che ha attirato ditte straniere (per lo più americane) per attingere al mercato comune europeo.

Gli scozzesi potranno anche avere una squadra di calcio nazionale, ma non hanno la libertà di fare ciò che ha fatto l’Irlanda. Per questo, mentre ottant’anni fa la Scozia non aveva ragioni economiche di invidiare l’Irlanda e aveva un sacco di vantaggi a far parte della Gran Bretagna, l’anno prossimo potrebbe pensarla diversamente.

Si può dare la colpa alla globalizzazione o all’ombrello UE, ma gli scozzesi non sono l’unica popolazione europea invidiosa di un suo vicino.

In Italia la gente sente il sorpasso sloveno. Non è solo la Sardegna che ha uno storico partito indipendentista che continua a vincere seggi nelle elezioni regionali. Questo sentimento sta diffondendosi nell’entroterra veneto, che fronteggia la Slovenia in crescita a est e la ricca Austria a nord.

Qui la gente è stufa di decenni di false promesse di federalismo e autonomia regionale fatte da Lega Nord e altri. Dapprima visto come il partito del cambiamento, oggi questo partito milanese è percepito come un’altra istituzione dello status quo che negli ultimi 15 anni è stata in coalizione di governo 3 volte per un totale di 9 anni.

Durante questo periodo l’elettorato di questa roccaforte della Lega Nord ha assistito al suo impoverimento relativo rispetto ai vicini slavi e ora è pronto a prendere una posizione più radicale.

Per la prima volta è nato un partito per l’indipendenza, il Partito Nazionale Veneto (Venetian National Party), che sfida al cuore la base elettorale di Bossi. [ndr, articolo di primavera 2009. Oggi ovviamente si è giunti alla fusione degli indipendentisti veneti  in Veneto Stato.]

L’idea di indipendenza non è nuova, specie in una popolazione che ancora ricorda con nostalgia secoli di prosperità artistica e commerciale sotto la Repubblica Veneta. Tanti luoghi in Europa hanno radici fedeli a un passato geopolitico differente, ma è sempre stato un fenomeno confinato a considerazioni etniche.

In questi giorni, la combinazione dell’istituzione dell’Unione Europea e della globalizzazione stanno creando un terreno fertile per far germogliare di nuovo queste radici grazie a un ragionamento economico. Il recente sconvolgimento finanziario e la forte recessione stanno innaffiando il desiderio di sovranità per farlo fiorire nuovamente.

In un paese così difficile da riformare come l’Italia, quest’alternativa così radicale sta acquistando credito come via d’uscita praticabile. Queste posizioni una volta estreme piacevano solo a una minoranza che sosteneva solo ragioni etniche, linguistiche e storiche. Oggi la motivazione economica sta seducendo un elettorato più ampio, moderato e consistente.

Quando la tempesta di questa crisi finanziaria si sarà calmata non dovremo sorprenderci se vedremo un’Europa un po’ diversa. Più attaccata a istituzioni pan-europee e meno, se non completamente distaccata, a capitali obsolete di nazioni ottocentesche.

Lodovico Pizzati (tradotto da G. Bottacin)

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